
Uno scrittore genovese sproloquiava un aneddoto: non si è mai vittime, ma si fa le vittime. Non sono d'accordo con lui, e penso che soffermandosi un po' a pensarci non molti possano esserlo. Tuttavia ho amato questo aforisma -tant'è che lo tengo a memoria da più di dieci anni- perché l'intento è buono e apre ad una prospettiva di progresso. C'è qualcosa di vero e di falso. Le vittime esistono: non c'è dubbio. A volte non si "fa" le vittime, ma si è vittime; su questo siamo d'accordo. Forse quello che lo scrittore voleva trasmettere era altro: un invito ad uscire dalla dinamica dell'identità di vittima.
Poiché ad essere vittime ci si sente impotenti, soli, incomprensibili, e in ultimo alienati dal resto dell'umanità, diversi, senza speranza di guarigione; forse ci si condanna da soli a un "ruolo" che deve essere mantenuto anche quando non ce n'è più necessità.
Si "fa" le vittime a un certo punto, è vero: perché l'etichetta di "vittima", comportando molta solitudine, reca anche dei vantaggi secondari. Ed è per quei vantaggi secondari che si fa del proprio dolore tutto ciò che di sé c'è da presentare, tutto ciò che si possiede e che si è. Sono quei vantaggi secondari che impediscono guarigione, superamento del trauma e crescita, cambiamento ("Io sono dolore incarnato").
Finché ci si sente vittime, anche quando lo si è, o lo si è stati, si sarà sempre impotenti. L'etichetta di vittima è un rassegnarsi alla morte, all'infertilità, al blocco, alla patologia.
Non mi perdo a pensarci sopra. Da quando vivo la mia vita davvero -scialba, noiosa che sia... però la vivo- sono concentrata sul fare più che sul pensare. Sospendere il giudizio -verso me e gli altri- mi è stato di grande aiuto. Non c'è questo grande bisogno di pensare, eppure non possiamo smettere di farlo, anche quando non è opportuno, è in eccesso, è tossico per la nostra mente e il nostro umore.
Più che di trincerarsi negli studi dei freudiani, consiglierei alle persone sofferenti, a quelle che affrontano un PTSD, una depressione, disturbi d'ansia, di panico, di dedicare mezz'ora al giorno alla meditazione. Che è un semplice "porre attenzione al respiro (o ad altro di fisico) e astenersi dal pensare". Non pensare sembra una cosa assurda: è la strada della consapevolezza. Che è come dire: la strada della vita.
Conosco persone che si trincerano dietro il loro vittimismo. Ne fanno bandiera perché sono a credito con la vita, quindi gli è dovuto tanto e gli altri contano poco di fronte ai loro guai. E' un modo di sopravvivere, e tendo a giustificare chi comunque ha affrontato o afronta discreti disagi. Certo uscirne farebbe bene, e spesso dipende anche da chi si ha attorno, da chi riesce a sollecitare l'uscita da questa - paradossale lo ammetto - confort zone. Anche un blog bella soluzione. E meditare ottimo passatempo, anche chiacchiere con se stessi.
RispondiEliminaDimenticavo.. ti ho trovato grazie a Katrina.. ;)
"Il mondo non ti deve nulla" è una lezione che alcuni imparano troppo tardi.
EliminaUn abbraccio.